di Elena Granate (Avvenire)
Viviamo immersi in un’economia che trasforma tutto in merce: casa, turismo, finanza, salute, lavoro, città. Non sono più ambiti separati, ma facce di un unico modello estrattivo che converte spazi, relazioni, tempo, affetti e vite in beni di consumo. Eppure l’homo oeconomicus non esiste davvero: l’uomo reale è più complesso, come ricordano Sen e Ostrom, riferimenti dell’economia civile. Ma, nota con ironia Timothée Parrique, «siamo sempre in tempo a diventarlo».
L’ambiente ci plasma: quando tutto parla la lingua del profitto, quella logica diventa anche la nostra. Si restringono desideri e aspettative e spariscono cortesia, gratuità, dono, tolleranza. La mercificazione non cambia solo la gestione dei beni, ma il senso stesso delle attività umane. Jacques Généreux chiama questo processo “dissocietà”, un mondo dove la competizione sostituisce la cooperazione.
Quando lo scambio commerciale domina ogni relazione, diventa quasi impossibile vivere fuori dal mercato. Lo vediamo nel turismo e negli affitti: abituati a riscuotere rendite elevate, è difficile tornare a rapporti economici proporzionati. Marx parlava del “feticismo della merce”: oggi è una vera droga. Se posso chiedere il massimo per un affitto breve, cosa mi spinge a non farlo? Quali anticorpi etici possono orientare le mie scelte?
Sappiamo però che sono le relazioni non commerciali a creare coesione sociale. La mercificazione erode questo cemento: ciò che era un debito sociale unico diventa un debito monetario impersonale, che si tratti di un Airbnb, di lezioni online, di un concerto o di un Uber.
Per questo riflettere oggi sulla sostenibilità, sul welfare e sul Terzo settore – come faremo al convegno L’economia che fa il bene – significa anche riconoscere i condizionamenti del mercato nelle nostre vite e nel nostro rapporto con il pianeta. Ciò che è stato trasformato in merce – l’acqua dei fiumi, il buio della notte, l’aria pulita, il tempo libero, le domeniche – può tornare bene comune da proteggere.
Bere un caffè, parlare in piazza, leggere in un parco, affittare a prezzi giusti: gesti semplici ma oggi profondamente politici. In un mondo dove tutto si misura e si monetizza, ogni spazio di gratuità è una piccola ribellione civile, una palestra in cui tempo e relazioni non hanno prezzo.